muzungu...
il giro del mondo a 20km/h (2003-2005) - diario

Di Claudio Del Grande

Parto da Luceto, frazione di Albisola Superiore (SV), mercoledì 5 marzo 2003.
Scopo del viaggio è compiere un giro attorno al mondo su cinque continenti.
Uso una bicicletta “di fortuna” pagata 50 Euro da un rigattiere, a cui sostituisco la meccanica originale con altra adatta all’abuso cui verrà soggetta.
Il telaio di acciaio è necessario per le sue doti di robustezza.  La forcella anteriore rigida permette di distribuire abbastanza equamente il peso del bagaglio davanti e dietro.
Non ho supporto di alcun genere al seguito.  Sui portapacchi sistemo l’essenziale e sufficiente per il viaggio: tenda, sacco a pelo, fornello, vestiario,  pochi ricambi e attrezzi e qualche libro.

La media chilometrica nella prima parte del viaggio è di 110 km giornalieri. 
Il tempo è inclemente. 
Pernotto quasi esclusivamente in tenda, approfittando di zone di campagna piuttosto nascoste al passaggio.  Il freddo mi impone di entrare in tenda molto presto alla sera per scaldarmi.
La gente delle campagne centroeuropee è di un'ospitalità sorprendente, mi fa tornare alla mente i bei ricordi di tanti incontri in Siberia, all'epoca del viaggio Italia-Tierra del Fuego in motoContadini mi offrono the e giacigli di fieno, o mi raggiungono per augurarmi il buongiorno quando scorgono la tenda sul loro campo al mattino.
In Ungheria, nonostante sia considerata la punta di diamante dei paesi dell'est europeo, esistono paesini abitati da Rom poverissimi, ai limiti della dignità umana.  

Molte persone in Romania tentano di dialogare con me ma nonostante la loro lingua sia latina come la nostra, sono poche le parole che capisco.  Lungo il percorso riempio le borracce da pompe a mano o dai secchi dei pozzi.  Lotto costantemente contro il vento, che mi rallenta e mi affatica molto.
La Romania è il paese del Non Stop.  Tutto o quasi resta aperto 24 ore.  Attraverso cittadine recentemente costruite durante il periodo socialista che appaiono già molto vecchie, altre di impronta medievale sembrano non invecchiare mai. 
Sighisoara, il paese natale del Conte Dracula (il vero nome è Vlad Tepes, Dracula significa "figlio del drago") sorge ai piedi di una collina.  E' una cittadina costruita probabilmente durante l'impero Austro Ungarico.  A Bram visito il castello di residenza del Conte

Bucarest è una città con le fattezze di Parigi ma con un grigiore stalinista imperante, e una generale decadenza.  Spiccano grandi hotel e un sacco di casinò.  Camminando alla sera mi vengono proposte: girls! girls!” o spesso ragazze!”, emblematicamente in Italiano…  In molti locali del centro è possibile incontrare italiani di ogni età abbracciati a sorridenti ragazze rumene.  “Sarà il fascino italiano” penso molto ironicamente.
Nicolae Chaushesku voleva trasformare questa città, ed in parte lo ha fatto, demolendo la vecchia città per costruirne una nuova, con boulevards, giardini e palazzi.  C'è addirittura una copia dell'Arco di Trionfo di Parigi.  Il parlamento rumeno è la costruzione più grande del mondo dopo il Pentagono
Il maltempo continua e mi accompagna fino in Bulgaria e alle porte della Turchia.   Sui cambi ed i rocchetti si formano blocchi di ghiaccio che rendono impossibile l’uso.
I doganieri turchi sono imbarazzati e dispiaciuti nel dover verificare i documenti ad un viaggiatore ammantato di neve dalla testa ai piedi.
 
Le grandi moschee di Edirne mi annunciano l'ingresso nel primo paese islamico. I turchi, amichevoli ed ospitali, lungo la strada mi offrono continuamente il the.
Nella Turchia europea mi impressiona il ritmo con il quale vengono costruiti i palazzi. La campagna estensivamente coltivata, in alcune zone lascia spazio a moderne costruzioni industriali.   Le città sono molto vivaci e ovunque i negozi eruttano verso l'esterno le loro mercanzie.

Istanbul è un’esperienza visiva per le sue moschee, strade e per la sua posizione addosso al mare, olfattiva per l’odore di tabacco, caffè e narghilè, sonora per la chiamata alla preghiera che all’unisono parte dai minareti di tutte le moschee.
“Ascoltare la città” al tramonto sul Bosforo è una delle mie azioni quotidiane preferite.

Ascolto ripetutamente “TAMAN” pronunciato dai turchi.
Significa “Va bene” o “E’ tutto a posto” e decido di assegnare quel nome alla mia bicicletta.

Mi dirigo ad est, direzione Iran.
Raggiungo la Cappadocia, caratterizzata da canyon e pinnacoli di tufo, nel quale sono state scavate abitazioni e chiese e nella valle di Hilara, adiacente, Gregorio e Basileo hanno fondato il loro modello di vita monastica.
Di seguito raggiungo Van ed il monte Ararat, nei territori del Kurdistan turco.
Tra il Kurdistan ed il resto del paese c’è una particolare differenza che salta immediatamente agli occhi.  Il ritratto di Mustafa Kemal Ataturk, storico padre laico della Turchia contemporanea, onnipresente in ogni negozio, sala da the o qualsivoglia locale pubblico, non viene appeso.
I curdi inneggiano a Abdullah Ocalan, per il quale per ovvi motivi non vengono esposti ritratti.
E’ stimolante trovarsi in compagnia di ragazzi, magari compagni di Università, amici tra loro turchi e curdi.  Mi sorprendo nel vedere che i loro scherzi hanno sempre per oggetto la nazionalità di uno o dell’altro, con esempi su questo genere:
-“Io non sono turco, sono curdo, sono nato in Mesopotamia, dove il primo uomo e la prima donna sono stati creati
-“D’accordo, fammi vedere su una cartina dove sono i confini del Kurdistan e poi ti credo, io non li riesco a trovare, e comunque sia chiaro, turco non sei!”
Il tutto con reciproci buonumore e ironia.
La gioventù in Turchia, orgogliosa, aperta al dialogo interculturale e interreligioso, interessata e con buone cognizioni oggettive della attuale geopolitica, ha buone carte per il domani.
 
L’Iran è un paese duro da attraversare.   E' impossibile cambiare dollari, tra le altre difficoltà.  Spesso mangio scatole di fagioli che miracolosamente trovo nei paesini semi abbandonati lungo la strada, dove le case sono costruite con legna e fango.  Le mancanze vengono riparate in parte dall'ospitalità iraniana, che in qualche modo mi procura un riparo dove dormire nelle città.
Quando visito i luoghi sacri non sono assolutamente vittima di eccessi religiosi, tutt'altro, vengo accolto con gentilezza e disponibilità in moschee e scuole coraniche.  
Ho attraversato una parte di deserto ad una temperatura di 52 °C.  L'acqua delle borracce era talmente calda da non riuscire a berla, faceva bruciare la gola e lo stomaco. 
Nel deserto si trova nulla e spesso vengo rifocillato da militari o camionisti.
Al sud si nota una differenza: non amano gli stranieri ed i segnali più evidenti giungono dai bambini, che assorbono le idiozie ascoltate dai genitori tra le mura domestiche.  La gente è piuttosto vuota, ottusa da sole nozioni religiose.

Nelle città moderne le ragazze sul capo hanno foulard leggeri , coprono solo metà testa, in altre parti del paese sarebbe impensabile un simile abbigliamento.

Il salto di qualità, verso il basso,  tra Iran e Pakistan è enorme. Qui  l'abbigliamento delle persone è rigorosamente conservatore
In Pakistan Sono protagonista di un fatto assurdo:  è notte, ho la febbre altissima per un colpo di sole, la polizia irrompe nella camera della locanda a Dhera Gazi Kan.  Le mie proteste servono a nulla, vengo caricato su un furgone e scortato da militari in Kalashnikov percorro un centinaio di chilometri, fino alla città di Multan.
La professionalità e la determinazione nell’intervento mi sconcertano.
Vengo accompagnato ad un hotel costosissimo.  Protesto per la scelta e ricevo in risposta: “vogliamo che tu dorma bene e al sicuro” e pare che il conto per la notte vada alla polizia.
Il mattino seguente un capitano mi interroga, e alla mia partenza una scorta militare mi segue per tutto il giorno. Questo si ripete per i quattro giorni successivi.
Sono inconsapevole del perché di tutto questo finchè da casa non ricevo la notizia di aver occupato le prime pagine di molti giornali.
Sospettato di spionaggio nucleare, vista la sensibilità della zona in cui mi trovavo.
Al Jazeera ha trasmesso la notizia ed il tamtam giornalistico l’ha portata in Europa ed ovunque.
Poso le ruote sulla Karakorum Highway.  La catena himalayana mi dà il benvenuto.  La Cina è vicina.
Una volta entrato mi equipaggio per affrontare i 2500 km tra le montagne che mi porteranno a Lhasa, capitale provinciale del Tibet.
Reinhold Messner lotta da anni per consentire l’accesso per gli stranieri alla strada che intendo percorrere.  Ho davanti a me 7 check points istituiti per rispedire indietro viaggiatori attratti dalla strada più spettacolare del mondo.
Intendo attraversare i punti critici nella notte, o confuso tra i camion.
L’ascesa ai diversi passi e’ resa ancor più faticosa per le condizioni della strada e dai numerosi guadi dovuti al disgelo. La scarsità di ossigeno  mi impone a fermarmi per riprendere fiato ogni pochi metri di dislivello. 
I paesi segnati sulla mappa non sono altro che poche baracche di lamiera. Distano circa 100 chilometri l’uno dall’altro. Ogni sera compro uova e carne secca per affrontare il giorno successivo.
All’ultimo check point vengo smascherato da tre grossi cani.  Riesco a calmarli lanciando loro i miei biscotti.  La tattica dura finchè ho provviste, poi le bestie ricominciano ad abbaiare, svegliando le guardie che immediatamente mi localizzano con un faro.
Vengo accompagnato in caserma e immagino mi verrà intimato il dietro front.
Un ufficiale mi porge i miei documenti, si scansa e con il dito indica…Lhasa!
A quota 5000 metri attraverso il Tibet.  Supero l’indimenticabile Lhasa.
Raggiungo il Nepal e l’India, incontro le scimmie onnipresenti, ma incontro anche la piaga della lebbra tra i poveri.
A Varanasi assisto alle cerimonie funebri.  Su lettighe di bamboo i morti fasciati con stoffe colorate vengono immersi alcuni minuti nel Gange per essere purificati, una volta asciutti si cambiano i panni colorati con altri bianchi e a turno i corpi sono posati sulle pire a bruciare, le ceneri vengono lasciate cadere nel fiume sacro, ritenuto il mezzo che li veicola nella vita ultraterrena. 
Come vuole il rito i famigliari dei defunti si lavano nel fiume e si tagliano barba e capelli a zero, nessuno si dispera per la morte dei loro cari, anzi sono sereni e tranquilli. Sono coerenti nella consapevolezza che ogni nascita porti con se il germe della morte e lo stadio terminale dell’esistenza lo vivono saggiamente.
I bambini o gli uomini morti per morso di cobra vengono gettati nel fiume con una pietra legata al collo.
Sovente i resti dei cadaveri vengono issati nelle reti assieme al pesce.
Varanasi è assediata da visitatori da tutta l’India, la porta del Nirvana è aperta per quindici giorni, il suo accesso è il fiume Gange.
Il Gange è in piena e alcune delle strade della città sono state inondate, per rispetto è vietato calpestare le acque con le scarpe, io per evitare questo aggiro le zone sommerse con deviazioni chilometriche: i piedi a bagno non c’è li metto neanche morto...Nirvana o non Nirvana
In mezzo alla povertà i luoghi sacri sfoggiano la loro incalcolabile e ingiustificata ricchezza. Il Golden Temple di Varanasi  dedicato a Shiva ha una cupola “caricata” con 800 chili d’oro!
Calcutta è una città molto interessante. Nella città mi sorprende la concentrazione di volontari attivi per il ricordo carismatico di Madre Teresa, mi chiedo perché invece di lasciarsi cullare tra le comodità che offre una grande città non si avventurino nei paesini dove la gente muore letteralmente per le strade.
La povertà ha i comuni effetti collaterali.  Un bambino, figlio dei proprietari della locanda dove dormo, mi ruba il walkman.
A Calcutta gli italiani sono amatissimi, direi venerati.  Il padre in lacrime chiede perdono per il figlio e insiste perché io non paghi la notte.  Io sono imbarazzato e triste, in ogni maniera cerco di far capire che non ce l’ho col ragazzo e voglio pagare la stanza.  Essere “venerato” mi fa vergognare, io altro non sono che uno che da bambino il walkman poteva comprarlo.

Dal Bangladesh sono costretto a un dietro front in quanto le frontiere della Birmania sono chiuse da oltre trent’anni. Aggirare il paese passando dalla Cina e’ l’unica opzione per raggiungere il sud-est asiatico  Nonostante la deviazione mi costi 5000 km sono felice di rivedere il Nepal e il Tibet. 

Il Laos è poco interessante paesaggisticamente, ma un luogo comunque benedetto dall’ospitalità e gentilezza dei suoi abitanti.  La quiete è sovrana.  Trascorro il Natale in un paese buddista dove non sono bombardato dalle mille luci e pubblicità natalizie, è la prima volta e mi piace. La cucina è ottima e le persone stupende, vorrei riuscire a salutare e toccare la mano a tutti quelli che me la porgono ma non posso.
Supero il Mekong ed entro in Vietnam.
A Saigon,  visito il museo "Resti di guerra".  Il museo ha cambiato il suo nome, un tempo era chiamato "Crimini di guerra americani".  La nuova scelta è per non offendere la suscettibilità dei turisti americani…
Al suo interno sono esposti resti bellici e foto che ritraggono scene di una crudezza sconvolgente.  Nel salone d'ingresso campeggiano numerosi striscioni in tutte le lingue, provenienti dalle manifestazioni pacifiste di tutto il mondo, e tra questi ne è ben visibile uno in italiano

"IL VIETNAM E' LA NOSTRA COSCIENZA"

La Cambogia è più povera del Vietnam.  Le case sono le solite palafitte di legno.  Incontro continuamente prati verdi con qualche palma, e foreste.  E' pericoloso uscire dalle strade, per la presenza di mine antiuomo nei prati e nelle foreste e  per l'esistenza di  molti serpenti mortali. 
La gente è molto gentile.  Il primo approccio è davvero positivo.
Incontro Daniela, l'amica conosciuta in Nepal.  Come promesso la vado a trovare e mi fermo da lei per qualche tempo, la accompagno nelle visite ai villaggi, allo scopo di sondare le condizioni di vita degli abitanti. La situazione riguardo alle condizioni, al lavoro ed agli stipendi è critica.  I sondaggi hanno lo scopo di permettere l'erogazione del microcredito, piccoli prestiti per mettere le persone in grado di lavorare meglio, guadagnare di più, rendere il prestito e andare avanti in condizioni migliorate. 
Le famiglie sono sempre numerose, ed i sondaggi servono anche per valutare se i genitori sono in grado di mantenere i propri figli.  Nel caso contrario i bambini vengono accompagnati al centro, dove possono vivere e istruirsi.
Mi fermo un mese con lei nella scuola.  Passo le mie giornate giocando coi bambini.  Divento immediatamente il loro compagno di giochi…o giocattolo, non saprei.
Accorro continuamente ai loro “CAIOOOOOOOOO!!!”(Claudio)

A Bangkok in Tailandia si possono ammirare i “machos” occidentali di 60 anni mano nella mano con ragazzine di poco più di 18 anni.  Questa è la “risorsa del turismo” per i tailandesi che i media hanno elegantemente evitato di citare in occasione della tragedia dello Tsunami nella terra delle “vacanze da sogno”.
Percorro l’est del paese, relativamente lontano dalla calamità del turismo di massa anche se relativamente lontano dall’essere ancora Asia.
La Malesia è un riassunto etnico e religioso di tutta l’Asia.
Mussulmani in prevalenza, buddisti, induisti e cristiani convivono.
Dagli scolari ai dipendenti dei Mc Donald’s, ognuno veste una divisa diversa a seconda della religione.
Le torri gemelle più alte del mondo, quelle di Kuala Lumpur, annunciano l’approssimarsi alla città futuristica già a 10 km di distanza.
La modernissima città stato di Singapore è l’ultima tappa nella penisola del sudest asiatico.
L’approdo a Sumatra nell’arcipelago indonesiano è un tuffarsi nuovamente nell’abisso della povertà.
Ritornano i clacson sguaiati ed il disordine che mi hanno cullato per molti mesi.
Sumatra e Java sono mussulmane.  Il paesaggio di Sumatra è una giungla interminabile, la maggior parte della gente vive in capanne al suo interno.
Vengo punto ai piedi da un ragno velenoso. Gonfiano al punto da dover usare i sandali, nelle scarpe non entrano. 
A Bali vengo invitato da una famiglia a mangiare e dormire.   Il fanatismo religioso e il vanto di avere una figlia di 17 anni sposata ad un anziano statunitense non lasciano spazio ad altre discussioni.  Spesso è complicato comprendere, ma l’ospitalità verso il “diverso” è la più potente delle benedizioni.

Darwin è il mio primo contatto con l'Australia.
I funzionari doganali mi sconsigliano vivamente di attraversare il paese nel mezzo, ma di seguire la costa dove potrò ovunque reperire acqua nel mio viaggio fino a Sidney.
Coccodrilli, canguri e pappagalli annunciano la natura australiana fin dai primi km.
I pericoli più grandi dell’ esperienza australiana non sono ragni o serpenti, quanto i road trains, camion con tre o più rimorchi, e l’alcool fortemente scontato nelle aree di servizio che trasformano le strade in arene. 
Incontro molti aborigeni ai margini delle città.  La maggior parte è alcolizzata. Purtroppo la loro è una triste storia, sterminati e ridotti in condizioni pietose come gli indigeni d'America, con il ricorso subdolo dei carnefici bianchi all’alcool quale estremo rimedio all’orgoglio che non ne vuole sapere di morire.

Imbocco il deserto.
Ricevo in regalo da un viaggiatore una bisaccia per dieci litri d’acqua.  Godo di una delle esperienze che amo di più: la solitudine nella notte di luna piena del deserto.
A 30 km dalle sue pareti scorgo il monolite Uluru, 348 metri verticali a segnare il centro del deserto.  Cambia colore con l’incidenza dei raggi solari.  Passo alcuni giorni ad ammirare il fenomeno al tramonto.
Incontro un olandese che viaggia in bici in compagnia di un cane da 15 anni.  La sua bici ha tre carrelli e lunga 6 metri, pesa 600 chili!!!! Trasporta 50 litri d'acqua, due bombole per la cucina a gas, due batterie per le luci e il lusso di un'autoradio.
Lui ha circa 50 anni, vestito da donna e con unghie con lo smalto rosso! Viaggia ad una velocità di 5 chilometri all’ora.
Molti autisti si fermano a regalarmi acqua e cibo.
Un mese nel deserto e 4000 km, sono sul mare e prossimo ad Adelaide.
Cominciano le piogge, durante la notte riesco ad asciugare in parte la tenda con due candele accese.
In quattro giorni raggiungo la Great Ocean Road.
Raggiungo Melbourne, una città cosmopolita tanto simile a Singapore, e gremita di italiani emigrati.
Giungo a Sidney, pronto a raggiungere la Nuova Zelanda.
Tra abitanti nei deserti e nelle coste, ho incontrato dingos, koala, serpenti, volpi volanti e molti altri animali.

Nell’isola del sud, in Nuova Zelanda passo da una valle all'altra immerso in fitte pinete e verdi pascoli tra le imponenti Alpi neozelandesi.
 L'isola e' ricca di sorgenti e l'acqua cristallina dei fiumi scorre in stupende valli dove pascolano mucche, pecore e alcuni cavalli. Branchi di cervi sono intrappolati in ampi recinti, probabilmente carne da macello.
La quasi totale recinzione delle terre mi rende difficoltoso accamparmi.
Lo stretto di Cook separa le due isole, raggiungo la capitale neozelandese Wellington dopo tre ore di mare.
Percorro la strada al centro dell'isola, la Desert Road.

Improvvisamente avverto uno spostamento nel bagaglio, il telaio si è spezzato.
La rottura è avvenuta su uno dei pendenti, provati dal sovraccarico sul portapacchi. Sistemo con il filo di ferro e riparto, solo ad Auckland mi sarà possibile trovare una saldatrice in grado di saldare parti così delicate.
E’ assolutamente raccomandabile per un viaggio l’utilizzo di un telaio di acciaio o ferro come il mio, anziché uno di alluminio o altre leghe.
La probabilità di una rottura si abbassa di molto, e nell’evenienza in cui questa avvenisse si può riparare.
Tra gli scricchiolii la vecchia Taman regge e non molla mai.
Sono pronto per l’avventura americana, attendo di volare in Cile.

Hola, atterro a Santiago, Cile.  Trascorro la prima notte americana su una panca ben chiuso nel mio sacco a pelo.
Intendo superare le Ande per raggiungere l’Argentina, passaggio non semplice per l’inverno.
Io e i camion proseguiamo a passo d’uomo sui fianchi delle possenti Ande.
Faticano a sorpassarmi, e durante l’operazione mi danno un temporaneo riparo dal vento che mi sferza.
Raggiungo il confine argentino di sera e alloggio in una osteria davanti alla frontiera. La mattina seguente attendo le comodità degli ufficiali dell'immigrazione.
Il proprietario dell'osteria racconta che gli ufficiali durante l'inverno alzano il gomito di sovente e al mattino dormono molto. Addirittura un ufficiale afferma di aver avuto un contatto con gli extraterrestri, di essere stato esaminato e poi lasciato libero. Giura di non aver bevuto....chissà se è vero?

Sul lato argentino le Ande sono quasi prive di neve. Le correnti calde dell'Atlantico alzano la temperatura.
Il dulce de leche e l’asado, manzo cotto su pietre, mi regalano l’energia che serve per l’inverno sui monti.
A Cordoba riposo allietato dai giocolieri e saltimbanchi.
Il problema nell’attraversare le grandi città sono le Villas, distese di baracche abitate da persone ai margini della società. Molte volte la strada passa affianco a questi ghetti, consigliano di pedalare veloce e assolutamente non fermarsi per qualunque ragione. 
Le distanze nella pampa sono scandite dall’incontro con gauchos che conducono bovini e da soste nelle aree di servizio per bere il mate, la tisana calda tanto comune in Argentina.
A tenermi sveglio su questa monotona pianura sono i pirati della strada. Per i camionisti io rappresento un ostacolo alle loro folli corse. Sono sempre costretto ad uscire di strada per evitare di essere travolto. In una di queste occasioni un ferro squarcia il copertone e frantuma un pezzo di parafango. Con rimedi di fortuna riesco a proseguire la mia lenta marcia.

Lo standard del Paraguay è inferiore a quello argentino.
Molti poveri percorrono le strade con carri trainati da cavalli rinsecchiti per raccogliere nylon ed oggetti nelle immondizie.
Nei campi e fattorie non ancora abbandonati la terra è lavorata con l’aratro tirato dai buoi.   
I paesi non sono altro che gruppi di case malridotte. La gente più  povera, in maggioranza indigena, vive nella foresta in baracche di legno. 
Ci si nutre spesso di una misera bistecca e poche foglie d’insalata.
I paraguaiani sono molto amichevoli, chiacchieriamo spesso.  Tra di loro parlano il Guarany, la lingua indigena. Nonostante la lingua ufficiale sia lo spagnolo molti faticano a parlarlo. 
Raggiungo Ciudad del Este, dove i fiumi Iguazu e Parana formano una “Y” naturale che divide il Paraguay da Brasile e Argentina.
Questa città è considerata un “porto” di corruzione e contrabbando.

Las Cataratas del Iguazu si formano nel fiume che segna il confine tra Brasile e Argentina, sono la meraviglia naturale del Sud America. Già  ad alcuni chilometri di distanza si ode lo scroscio dell'acqua. Prima di arrivare al salto il fiume si divide in numerosi canali che formano diverse cascate. Cinquemila metri cubi d'acqua al secondo cadono da un altezza di settanta metri.
Lotto costantemente con i coatis, orsetti che frugano continuamente tra le mie provviste.

La popolazione in Brasile è eterogenea, al sud discendono dagli italiani e dai portoghesi, al nord ci sono mescolanze africane.

Ho divertenti colloqui con le persone.  Abbozzo qualche parola in portoghese nel fluire del mio spagnolo.  Loro fanno l’operazione opposta e tra noi il miracolo avviene.
La vivacità è onnipresente. Il paese più rumoroso ed energetico del Sud America brilla della sua perla più preziosa: Rio De Janeiro.
Il Cristo redendor sovrasta la città.
Dalla sua “postazione” si vede la spiaggia di Copacabana, e le favelas degli ultimi.

Nos Vemos America!
Raggiungo il Sudafrica in volo.

Città del Capo relega gli abitanti neri a veri ghetti.  Lo splendore di certe aree cittadine è appannaggio dei soli bianchi, che affiggono inferriate alle finestre delle loro abitazioni.

Cape Agulhas segna il punto di contatto tra i due oceani, Indiano e Atlantico.  Inizia la risalita del continente nero.

Incontro bambini per la strada, bambini neri, ai quali regalo arance che verranno divorate fino alle bucce.  In una seconda occasione un salame mi viene restituito appena rosicchiato, sintomo di stomaci non abituati a essere riempiti.

Di nuovo nei deserti, e di nuovo procedo con tanta acqua quanta riesco a trasportare.  Sono costretto a non lasciare la strada principale, unica a garantirmi un rifornimento ogni 150 km.
Pernotto in piazzole con i camionisti, e al mattino smonto la tenda con cautela per gli scorpioni e ragni che si annidano al di sotto.
Nella capitale della Namibia osservo i capolavori di semplicità dei giochi per bambini, come automobiline, tratti da scatole di latta

Botswana, i doganieri scherzano: “se corri più veloce di un leone che ti vuole divorare, passa pure
Pochi villaggi di capanne spezzano la distanza e mi permettono di rifornirmi di cibo. Nei negozietti trovo a fatica scatole di fagioli. Fagioli a colazione, fagioli a pranzo, fagioli a cena.  Attraverso i villaggi tra le acclamazioni degli abitanti: “Corri, fratello!”

Mi adeguo al look africano, raso a zero la testa.
C’è pericolo di felini, ma solo alla notte, basta non campeggiare in luoghi isolati.  Alla sera chiedo agli abitanti dei villaggi se posso bivaccare nei pressi delle case.  Sono al sicuro dagli animali e ho occasione di conoscere persone simpaticissime che basano la loro semplice sussistenza sul baratto, passare serate nella sana curiosità reciproca ed essere assalito da bambini che incuranti delle mie ossa a pezzi giocano a fare la lotta con me fino a disintegrarmi.

Incontro Gnu, struzzi, impala, gazzelle, giraffe, entro nello Zimbabwe, per accorgermi che la risalita a nord accompagna condizioni sempre più misere di vita.
Fermo a pranzo a nutrirmi dello nshima, un pastone di acqua e farina, quasi unica dieta per gli abitanti delle foreste dello Zimbabwe e per me.  Raramente trovo scatole di fagioli e biscotti.
Nelle città i supermercati mostrano dei prezzi da capogiro, comparabili a quelli europei, inaccessibili alla maggior parte della gente di qui.  Sconcertato osservo generi alimentari, oggetti e giocattoli sui banchi, e ripenso al gruppo di bambini che giocava a cacciare insetti con ramoscelli.
Gli insetti venivano mangiati.
In Zambia e Malawi l’oggetto di commercio più comune è il carbone naturale.  Esso viene ottenuto bruciando i boschi.  La torba ottenuta viene esposta in sacchi ai bordi della strada.
Bambini raccolgono bacche selvatiche e pure materiali ottenuti dallo smantellamento di capanne abbandonate vengono messi in vendita.
L’acqua giunge su autocisterne dalle città.  Non è potabile ed ogni famiglia rimedia facendola bollire su falò nei cortili.
Le biciclette della Cina sono il mezzo di trasporto più diffuso.  Spesso vengono caricate al punto da farmi arrossire, pensando al mio di carico.
Ho rischiato un’ernia del disco aiutando a risollevare una bicicletta caduta. 
Molta gente possiede alberi di mango, altri grano ed altro.  I frutti della terra vengono barattati tra di loro o con carne.
Preoccupazione maggiore è quella di tenere a bada le scimmie che spogliano gli alberi.
La gente lamenta il numero ridotto di leopardi nella zona, causa dell’incremento demografico delle scimmie.
Senza riuscire a scorgere l’animale, ho occasione di ascoltare una scena di caccia: un ruggito seguito dalle grida della scimmia malcapitata.
La gente mi mette in guardia circa l’esistenza di serpenti aggressivi e mortali nell’arco di pochi secondi.
Trovo due “cuccioli”, non so se di quella razza, nel lavandino di una locanda in cui fermo.
Molte scimmie passano il tempo osservando il passaggio di mezzi sulla strada.
Una di loro al mio passaggio ha uno sguardo davvero emblematico.  Mi osserva grattandosi la testa. 
gli scherzi dell’evoluzione
deve aver pensato.

Entro in Tanzania, facendo la consueta attenzione a non farmi rifilare soldi falsi nel cambio.  Procedo tra le grida di “muzunguuuuuuu!!!” che in Swahili significa “uomo bianco”.
Allo Nshima alterno piatti di patate.  Sono preoccupato dal mio continuo calo di peso dovuto alla fame nei lunghi tratti di percorso a digiuno.
Fortunatamente comincio a trovare delle uova, a volte ne divoro una dozzina in una giornata.
Durante un pranzo a base di pane arabo ed un bicchiere di latte, ricordo il simpatico cuoco ripetere: “Coraggio ragazzo, è un pasto molto energetico”.  I buffet per strada sono baracche di lamiera.
Amo il suono dello Swahili, ma imparo solo poche parole: “Akuna Matata!”

Eseguo riparazioni di fortuna a Taman, come usare una bottiglia di plastica per chiudere uno squarcio a una gomma.
Sono preoccupato dall’inefficacia dei repellenti anti zanzare.  Ho incontrato un viaggiatore australiano coi postumi di una forte malaria e vengo a conoscenza della forte mortalità infantile per il male o i suoi postumi.
E’ d’uso in tutti i paesi che percorro che gli uomini rasino la testa a zero, e le donne adornino il capo con ciocche finte.
Le mamme trasportano i bambini nella maniera più corretta e decaduta nell’occidente: in spalla, in grossi foulard.  Spesso mi capita di scorgere alle spalle di una donna una manina che sbuca a farmi ciao

Incontro finalmente gli elefanti.  Mi avvicino ad un cucciolo, ma vengo dissuaso immediatamente dalla gigantesca madre.
 
 Il verde permette i pascoli.  Incrocio molti masai, solitamente vestiti di rosso, che portano a pascolare le mucche. Sono molto amichevoli e alcuni indossano sandali costruiti utilizzando carcasse di copertone, sono stupito dalla trovata.  Il battistrada è una suola d’eccezione. 

Un improvviso calo energetico accompagnato da dolori alle ossa rallenta molto la mia marcia. Raffreddore e febbre alta mi debilitano del tutto. Le mie condizioni peggiorano giorno per giorno. Seduto ad un ristorante ho un forte giramento di testa, la cameriera gentilmente mi accompagna ad una clinica scalcinata. Il test del sangue da conferma ai miei dubbi: è malaria.
Le medicine molto potenti mi provocano insonnia. Dormo due ore per notte e rido parecchio in preda a stati confusionali.

 
A due passi dal Kenya mi si para davanti il Kilimangiaro. La terapia non vietava l’uso della bicicletta ma sono troppo debole per continuare a pedalare.
Riposo un paio di giorni per riacquistare  le energie.
Lungo le strade di Moshi le donne sedute davanti a una macchina da cucire aspettano clienti, altre stirano con un ferro a carbone. Gli africani non sono portati per il business, sono troppo semplici.

A Nairobi vado in una clinica per un secondo test. Il risultato e’ negativo ma nel sangue ho ancora parassiti malarici. Il dottore mi consiglia 5 giorni di assoluto riposo.
Al terzo test non c’è  più traccia di malaria nel sangue, ancora un paio di giorni per eliminare la tosse e potrò ripartire.

Lascio Nairobi alle spalle, scorgo il monte Kenya nella nebbia, procedo a duemila metri di altitudine nel caldo soffocante.
Nove mesi fa attraversai l’equatore in Indonesia, oggi lo riattraverso nell’altro senso.

 
Organizzo la scorta che mi porterà al confine etiope. La presenza di guerriglieri somali rende la zona molto pericolosa e il governo keniota offre questo servizio. A proteggermi ci sarà un mezzo davanti e uno dietro. Negli anni scorsi sono stati uccisi due tedeschi in bicicletta
Giunto sul luogo prestabilito, mi rendo conto che i potenti mezzi della scorta altro non sono se non un fuoristrada scalcinato che non si decide a mettersi in moto.
Mi viene intimato di percorrere il tratto critico del percorso a bordo di un camion bus.
Ad un punto, per l’improvvisa esplosione di un pneumatico il mezzo finisce fuoristrada.  Io assieme agli occupanti del cassone restiamo a ondeggiare aggrappati alle centine finché il camion non si ferma.
Per fortuna nessuno si ferisce.

Al nord le condizioni di vita si inaspriscono.  L’acqua è un bene prezioso.  Biciclette cariche di taniche percorrono sempre le strade per giungere al fiume più vicino, o alla pompa a mano che solitamente si trova a metà strada tra due villaggi.
La gente mastica delle foglie "energetiche".  Sono tipo le foglie di coca in Bolivia ma quella in Kenya non è coca e non è illegale l’uso.

Viaggiatori di diverse nazionalità mi preannunciavano un quadro orrendo sull’Etiopia.
Fatti del tipo: lancio di pietre e bastoni tra i raggi delle ruote che hanno causato la frattura della spalla ad un olandese, la mandibola spaccata da un masso lanciato ad un tedesco allo scopo di derubare di tutto quello che si ha.
Incontro un tedesco ciclista che afferma di aver attraversato il paese con un coltello ed un bastone pronti all’uso, uscito illeso ma vittima di attacchi del genere.
Guido, che mi attende ad Addis Abeba, un signore italiano operante per una ONG e residente nella città, in una e-mail smentisce il quadro catastrofico.
I primi giorni nel paese mi convincono della sua tesi.  E’ possibile che i fatti raccontatimi siano circoscritti ad una specifica area, ma preferisco pensare ad uno spregiudicato tamtam tra viaggiatori.
A dire il vero ricevo qualche sassata, ma da bambini che ad un mio grido fuggono via

 Mi nutro con pane etiope e carne, o con il burro di arachidi keniota.
Sulle strade c’è molto traffico pedonale, i bambini tornano da scuola, hanno un sacchetto con un libro e un quaderno.  Mi accerchiano e sottomettono a una pioggia di domande.
I pochi veicoli che incontro sono scalcinati bus, o vecchi camion FIAT.
L’attività di sussistenza più diffusa è la pastorizia, spesso di cammelli.
  
La fisionomia etiope rivela le mescolanze arabe, le religioni cristiana e islamica convivono.
Mi trovo bene, nonostante rimpianga la quieta semplicità degli africani, rimpiazzata da una sorta di “sciagurato” trambusto che mi ricorda il medio oriente. 
L’Etiopia e la Liberia sono gli unici due stati in africa a non essere mai stati colonizzati e ne vanno molto fieri.
Ma nei pressi della capitale passo di fianco ad un anziano che mi chiede “dove vai?
Ricevo altresì molti “ciao” e “buongiorno”, o “caramella…” da bambini che allungano la mano, fatti emblematici nella nebbia della storia.

Trascorro un mese nella casa di Guido dove una famiglia allargata condivide l’abitazione e lascia la porta aperta a chiunque abbia bisogno di ogni genere d’aiuto dal mio favoloso amico.
Mi rendo conto della benevolenza dei molti poveri nei suoi confronti e di chi ha forse avuto salva la vita da operazioni chirurgiche avvenute in Italia per la sua intercessione.
La mia sosta è “forzata” per il tanto tempo speso per tentare di ottenere il visto sudanese, o di trovare passaggi su navi cargo da Djibuti per l’Egitto.
Nulla ottengo se non la più deprimente delle soluzioni: un volo da Addis Abeba all’Egitto.

Spendo qualche tempo a visitare le piramidi a Il Cairo e attendo il traghetto che mi riporti in Europa.  Israele ad est impedisce la soluzione di una risalita via terra: il timbro israeliano sul passaporto precluderebbe l’accesso ai paesi arabi attorno.
La via ad ovest è altresì preclusa per i cattivi rapporti tra paesi confinanti tra loro.

Viaggiatori incontrati nel sud del continente mi preannunciavano che una risalita totalmente via terra del continente nero è quasi utopia.
I cattivi rapporti tra paesi, conflitti di varia natura o semplicemente iter burocratici astrusi lo trasformano in una ragnatela di confini chiusi.
Dai miei primi giorni nel continente ho studiato il percorso e vagliato le varie alternative.
Credo di aver comunque intrapreso quello che mi ha portato il più lontano possibile.

Sono ormai in Grecia, dopo 25 mesi mi ritrovo in Europa. Grazie all’ospitalità della gente trascorro giornate serene. Nella mia mente continuano a scorrere immagini del continente nero. Ho la malattia che accomuna molti viaggiatori, il mal d’Africa.

Con un traghetto sbarco a Bari e in pochi giorni raggiungo Albisola Superiore dove il paese è in festa per il mio rientro.
In una piazzetta sul lungomare una grande concentrazione di persone mi attende.  Le autorità comunali assieme ai miei amici hanno allestito una mostra fotografica del viaggio, operatori della televisione e del giornalismo mi intervistano.  Il Sindaco mi conferisce un trofeo al merito.  Parcheggio Taman.  Il telaio è abbruttito dalle saldature che lo hanno rimesso in sesto, le scritte “peace from Italy” sono deteriorate ma ancora leggibili.  Molte persone spinte da curiosità la sollevano per saggiarne il peso, e i fotografi accostano l’obiettivo per immortalare sul display del contachilometri il numero 51280.

la tua pubblicità
su questo sito
www.muzungu.it - tutti i diritti riservati - info@muzungu.it